Alcuni dei più grandi insegnamenti si trovano nei posti più strani
Alex Zanardi ha vinto la medaglia d’oro nella gara di hancycling nel 2016 in occasione dei Giochi Para-olimpici di Rio de Janeiro. Quindici anni prima, come pilota di Formula Uno, aveva perso entrambe le gambe in un incidente ad alta velocità in Germania. Ricevendo la medaglia d’oro a Rio, Zanardi ha detto: “Sento che la mia vita è un privilegio senza fine… Anche il mio incidente, quello che mi è successo, è diventata la più grande opportunità della mia vita”.
Mi tiro su a sedere e presto attenzione quando qualcuno come Zanardi parla. C’è sempre qualcosa di bello – e di disorientante – nel trovare un dono dove pensiamo di poter trovare solo tragedia.
Le parole di Zanardi fanno eco alla visione del mondo del più insolito dei libri dell’Antico Testamento: l’Ecclesiaste. Molti sono stati frastornati dal suo continuo ritornello: “Vanità delle vanità, tutto è vanità” (Ecclesiaste 1:2) e dai modi discordanti in cui questa parte della parola di Dio sembra parlare della vita in questo mondo. Ma la genialità dell’Ecclesiaste sta nello scoprire doni in quel posto che è il più terribile, il più strano e il più amaro di tutti: la morte.
Le strane facce della morte
L’insegnante dell’Ecclesiaste non edulcora la morte; per lui essa perseguita ancora l’umanità come una maledizione. Eppure il suo genio sta nell’esplorare la distinzione tra la morte in generale e la mia morte in particolare. Con dei colpi martellanti, l’Ecclesiaste mi ricorda che la mia morte è certa, che la mia morte sta arrivando, e quindi incontrarla in anticipo oggi, lungo la strada, può essere uno dei doni più grandi che io possa trovare. Sto imparando a vivere preparandomi a morire.
Ecco qui tre strane sfaccettature della morte in Ecclesiaste, ognuna delle quali viene a noi con dei doni.
1. La morte è un chirurgo
In Ecclesiaste 1:1-11, non è usata la parola “morte”, ma nell’andamento lirico, come negli alti e bassi della marea, la poesia ritmica è un’ode alla presenza penetrante della morte: “Una generazione se ne va, un’altra viene, e la terra sussiste per sempre” (Ecclesiaste 1:4). Il punto di questa poesia è che il mondo stesso sembra inseguire la sua coda senza arrivare da nessuna parte. Tutto è ciclico, non lineare.
L’insegnante usa la creazione per centrare il punto del paradosso della vita in questo mondo: è un posto di continua ripetizione, dove finiamo per fare le stesse vecchie cose sette giorni a settimana, ancora e ancora, desideriamo un’interruzione – un nuovo lavoro, una nuova relazione, una nuova casa, un intero nuovo capitolo – e poi moriamo. E in un mondo di costante cambiamento desideriamo qualcosa che ci dia una permanenza – la palestra, un piano salutare, la polizza di assicurazione, il lifting facciale – e poi moriamo.
I chirurghi agiscono sui corpi umani. Feriscono e tagliano allo scopo di guarire e risanare. Nell’Ecclesiaste, la morte è un cardiologo, il più capace dei cardiochirurghi. Il desiderio di ottenere, di un di più – qualcosa rimasta affinché duri per sempre perché io ho vissuto – è un desiderio fortemente motivante di ogni essere umano. Vogliamo raggiungere qualcosa ed essere qualcuno. E il nostro più grande ostacolo alla nostra ambizione è la morte. Con grazia e misericordia, Dio usa la morte per operare i timori e le ansie del nostro cuore, il nostro lottare, sforzarci e affaticarci senza sosta per il guadagno, per la grandezza e per un’eredità imperitura che Dio ha negato alle creature decadute e ribelli.
2. La morte è un predicatore
Uno dei versi più straordinari di tutta l’Ecclesiaste è il 7:1: “Una buona reputazione vale più dell’olio profumato; e il giorno della morte, è meglio del giorno della nascita”. Come il suono dei chiodi che stridono su una lavagna, il nostro intero essere rifiuta la nozione che il giorno in cui una persona muore sia meglio del giorno in cui un bambino nasce. Ma il punto per l’insegnante è che i funerali, i crematoi, i carri funebri, le tombe aperte e le lacrime sul cuscino la notte siano degli amplificatori che Dio usa per rivolgersi a un mondo ossessionato da ciò che è superficiale ed effimero. “È meglio andare in una casa in lutto, che andare in una casa in festa; poiché là è la fine di ogni uomo, e colui che vive vi porrà mente” (Ecclesiaste 7:2).
Tutti i predicatori lottano con il modo in cui depositare qualcosa nel cuore. Come portarci a sentire, a vedere, a credere, ad avere fiducia, a sperare, ad assaporare non solo con la nostra testa, ma con ogni fibra del nostro essere. L’Ecclesiaste sa che le bare depositano le cose meglio delle culle. Sono predicatori migliori.
I nuovi nati hanno la vita davanti a loro, ma cosa possiamo dire a loro riguardo? Ancora non molto. Ma siediti un attimo al prossimo funerale a cui andrai, guarda e ascolta. Cosa viene detto – e cosa rimane inespresso – riguardo la persona deceduta? Era saggia, generosa, umile, trasformata dalla grazia? Amava il Signore Gesù? O aveva respinto il suo Creatore e vissuto i suoi giorni come un occupante abusivo e soddisfatto di un angolo dei territori del Re presenziando nel proprio piccolissimo impero?
Cosa si dirà di te quando sarà il tuo turno di giacere in una bara con tutti i parenti e amici riuniti? Ricevi il dono del sermone della morte. Depositalo nel cuore. Oggi.
3. La morte è un’artista
In Ecclesiaste 9:7-10, immediatamente dopo un altro promemoria che tutto ciò che viene fatto sotto il sole finirà per ognuno di noi, l’insegnante ci dà un comando: “Va’, mangia il tuo pane con gioia, e bevi il tuo vino con cuore allegro, perché Dio ha già gradito le tue opere” (Ecclesiaste 9:7).
La morte non distrugge soltanto. Ci spinge a disegnare la vita e ad accendere le tele delle nostre vite mentre possiamo. “Siano le tue vesti bianche in ogni tempo… Godi la vita con la moglie che ami” (Ecclesiaste 9:8-9).
La logica qui è che la morte allenta la mia presa sui doni di Dio, come se fossero miei di diritto, e invece mi libera per vedere il mondo per ciò che è: la ricca dote per delle creature capricciose di abbondanti cose buone che noi non meritiamo. Il creato è lì per essere goduto e per soffermarvisi, non saccheggiato per un mio guadagno o manipolato per la mia reputazione.
Cibo e bevande, amore e sesso, lavoro e bellezza – queste cose diventano ancora più piacevoli quando li dipingiamo dentro le nostre vite sapendo che un giorno queste passeranno. Proviamoli e teniamoceli stretti, o adoriamoli, e scopriremo che stiamo inseguendo il vento con solo delle manciate di nebbiolina da mostrare per tutti i nostri sforzi.
Apri le tue mani
Fra un centinaio di anni è abbastanza certo che quasi nessuno si ricorderà che tu sia mai vissuto. Pensaci. Se ciò è vero, allora ecco qui il ritratto che l’Ecclesiaste fa di una vita ben vissuta: apri una buona bottiglia e apri la tua casa. Condividi ciò che possiedi. Dai via quello che hai. Ricorda il tuo Creatore. Goditi i tuoi cari. Temi Dio. Ama la sua legge. Fai tesoro del suo vangelo.
Tutte queste cose sono grandi doni di Dio. E, stranamente, la morte può aprire le tue mani per riceverli.
David Gibson – tratto dal blog Desiring God
Lettura consigliata:
Destinati a regnare, di Paul E. Billheimer
Spinto dall’eternità, di John Bevere
L’ecclesiaste, di Remo Dosi
L’ecclesiaste, di Maria Teresa Standridge De Giustina
L’ecclesiaste e le risposte del Nuovo Testamento, di Georges Andrè
Dal mal di vivere alla fede, di Luigi Dalla Pozza
La Bibbia e l’al di là, di Samuele Negri
Vivere con la morte, di Daniel Marguerat
Cosa accadrà quando morirò?, di Marcus Nodder
Inseguendo l’arcobaleno, di Pablo Martinez Vila